Il fallimento e l’innovazione: gemelli inseparabili?

05/11/2020
Anche il magnate di Virgin Group Richard Branson, nelle varie interviste o occasioni pubbliche, non ha mai nascosto i propri insuccessi. In una delle sue frasi diventate celebri ha detto: “Le persone e le attività generalmente considerate di successo o più fortunate sono di solito anche quelle più pronte ad accollarsi i rischi e quindi a far fiasco”. Se non si corre nessun rischio, in fondo, non ci sono neanche margini per il successo.
La cultura anglosassone del successo come frutto di tentativi non andati a buon fine, del costruire la rinascita sull’errore, è ancora poco radicata.
In Italia, dove vige la cultura del fare e ottenere subito i risultati, l’atteggiamento è molto diverso: fallire è un problema per le vecchie generazioni e un fattore di demotivazione per le nuove.
Ormai sappiamo bene che fare innovazione implica esplorare terreni incerti e sconosciuti, operare in un contesto con informazioni parziali, confuse e a volte contraddittorie. Si deve, quindi, lavorare per ipotesi, con immaginazione. Prendere decisioni e agire in queste condizioni richiede attitudine e propensione al rischio per poter investire risorse senza avere sufficiente conoscenza sul risultato finale.
È quindi evidente che innovazione, sperimentazione, fallimento e rischio abbiano uno stretto legame.
Bezos stesso ha dichiarato che è possibile giungere alla vera innovazione solo attraverso la sperimentazione, aggiungendo che le più importanti innovazioni sono state il frutto di approcci trial&error che hanno attraversato numerosi fallimenti. Infatti, è solo attraverso la continua sperimentazione che è possibile acquisire conoscenza e capire se l’idea funziona o meno, se le ipotesi che la caratterizzano vengono validate oppure no.
Il punto cruciale che contraddistingue le più grandi aziende innovative risiede nella loro capacità – e velocità – di apprendere dalle sperimentazioni e dai test. Infatti, quello che più conta nel mondo dell’innovazione è capire il prima possibile che un’idea non funzionerà. Così sarà possibile procedere a sviluppare e a concentrarsi su altro, risparmiando risorse.
Nella realtà fallire è una carenza di rendimento, è l’opposto del successo. Il fallimento non è mai piacevole né auspicabile e non è l’obiettivo ultimo di una sperimentazione, perché comporta la vanificazione dei propri sforzi e la delusione delle aspettative.
È doveroso distinguere tra good failure, ovvero quando si sta provando qualcosa di nuovo e non è possibile sapere in anticipo cosa lo può rendere di successo, fallendo quindi nel tentativo di trovare la strada giusta, e bad failure, quando si fa qualcosa di sbagliato anche se è già possibile conoscere la modalità corretta di esecuzione.
Come ha scritto di recente Gary Pisano, docente di Harvard, una sana cultura dell’innovazione è contraddistinta da “tolleranza per il fallimento, ma nessuna tolleranza per l’incompetenza”.
Accettare il fallimento è solo un primo, seppur necessario, passo. È utile esaltare l’importanza dell’apprendimento, esaltare il concetto di “Validated Learning” (e sorpassare l’ormai inflazionato “Fail Fast, Fail Often”). Un fallimento senza apprendimento, infatti, è il più grave errore che si possa compiere, e che spesso molte aziende non si possono permettere.

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